IL GIARDINO DELLE MAGNOLIE

“Sono cose che la canzone non dice” – Natalia
E. Jannacci

Vilma sobbalza ogni volta che la porta viene aperta. Entra la dottoressa a chiedere a Vilma come va. “È un porto di mare” dice Vilma. Lamenta di non riuscire a riposare. Di essere continuamente interrotta nel riposo da persone che entrano in stanza con troppa irruenza.
“Ma anche di notte?”, chiede la dottoressa.
È mezzogiorno, ma Vilma crede di avere appena rifiutato la cena. Complice il cielo grigio e la pioggia fuori dalla finestra, non distingue più tra giorno e notte. La domanda cade quindi nell’incertezza di cui sono avvolte queste giornate. E a proposito di pranzo e cena, Vilma informa la dottoressa che non ne può più di dieta liquida, non vuole pappette, dice, vuole sgranocchiare, vuole mordere dice. In mancanza di qualcosa da mordere preferisce solo bere e non mangiare.
Per quanto riguarda lo sgranocchiare, la dottoressa propone di procurare del finocchio o delle carote crude, da poter appunto sgranocchiare.
Per quanto riguarda il disturbo arrecato al suo sonno, invece, la loro conversazione si inerpica su sentieri arditi per cadere poi nel nulla… Io le guardo… Senza dire niente…
Le infermiere devono sistemare Vilma, esco dalla stanza.
“Bene” le dico, “Così ti fai mettere nella posizione che trovi comoda”.
La dottoressa è in fondo al corridoio, si sta consultando a bassa voce con delle colleghe, è da poco uscita dalla stanza di Vilma… Non vorrei, ma la situazione sembra propizia, allora mi avvicino. Mi accoglie con sguardo benevolente.
Le dico che effettivamente infermiere e Operatori (Socio) Sanitari spalancano la porta ed entrano in stanza con molta energia, parlando a voce alta e con sostenuto entusiasmo (per dire un eufemismo…)
La informo che (a mio parere, per carità…) sembra che Vilma prediliga intorno a sé, un clima più silenzioso, un po’ più raccolto, più riflessivo.
Chissà… richieste strane di una persona che sta per morire… Con la dottoressa ragioniamo un pochettino su questa esigenza…
Le dico che Vilma ha chiesto anche ad amici un po’ troppo energici e estroversi di non passare più in visita. Vuole tranquillità…
La dottoressa considera le mie parole… In effetti… Proverà a chiedere al personale…
La sento però titubante. Provo.
“Non so se voi usate…”, le dico, “Magari affiggere un cartello alla porta della stanza con scritto: entrare con calma. O qualcosa del genere, chessò…”.
A questa mia proposta la dottoressa appare in estrema difficoltà. Sembra una misura esagerata. Lei può vedere di fare il possibile, di chiedere al personale… Ma un cartello….
“Sa…”, mi dice “Così come tra gli amici di Vilma… Anche tra il personale c’è chi ha un carattere più esuberante…”, che è impossibile da correggere, mi lascia intendere…
Io penso che il paragone sia improprio, gli amici di Vilma, esuberanti o meno, non ricevono uno stipendio per lavorare in un hospice oncologico. Non so…
“Va beh…”, mi scappa, “Non voglio fare polemica.”
“No, no… Mi dica pure”, mi fa lei, entusiasta.
Sono giorni che passando in corridoio vedo il personale del reparto impegnato dietro i vetri della sala, fare riunioni su riunioni… Chissà cosa si dicono, ho pensato.
“Sa…”, dico alla dottoressa, come a volermi scusare a priori, “Purtroppo, sia Vilma, che molti di noi suoi amici, abbiamo lavorato nel Terzo settore, in diversi servizi…”, quindi propongo… “Magari una riunione di équipe o di supervisione potrebbero essere utili per sensibilizzare il personale ad adottare alcuni comportamenti…”
Il viso della dottoressa si accende di una inaspettata vitalità…
“No, no…”, alzo le mani, “Non volevo neanche dirlo…. Non mi deve rispondere”, la rassicuro.
Intanto il volto della dottoressa si trasmuta in mille espressioni che stanno a significare: i mille discorsi, le mille cose da dire, le mille complessità di questo lavoro….
Mi informa pure che: “Già siamo una struttura con la “mente aperta”…”, mi dice.
Gli altri hospice di sicuro sono peggio, lascia intendere.
Sempre gesticolando con le mani la rassicuro io: “Non c’è bisogno che me lo spieghi…”
Lei rassicura nuovamente me, vedrà di fare il possibile, ma ci mancherebbe dico io, si figuri, prego, ma non si preoccupi, buon lavoro, torno in stanza… a suon di reciproche rassicurazioni.
Al rientro tento di mettere Vilma seduta a letto, aziono il motore del letto… Ma c’è qualcosa che non va. Il suo corpo si blocca e oppone resistenza. Mi accorgo che solo il busto è diritto, le gambe non sono stese, sono praticamente incrociate, le operatrici sanitarie me l’hanno lasciata così.
D’altronde Vilma ha completamente perso la mobilità (certo, non la sensibilità, ma è un particolare…) di una gamba e pure di metà del corpo, che quindi non serve più a nulla; deve essere per questo che le operatrici sanitarie non si sono prese la briga di posizionarla diritta…
Le sistemo quindi le gambe, la tiro su in posizione seduta mentre mi girano in testa le parole scambiate con la dottoressa e l’esempio di accudimento che ho trovato al mio ritorno in camera e le dico:
“Eh Vilma… Io e te siamo nati nel periodo sbagliato e nel posto sbagliato”.
“Sì”, riesce a dirmi lei, “Noi siamo demodé”. Ce lo siamo sempre detti.
Irrompe subito in stanza un’altra operatrice sanitaria, senza bussare né chiedere permesso. Farlo deve essere veramente demodé, penso…
“Allora Vanda!”, esulta, “Che cosa vuoi di merenda?”
Udendo la sua voce mi si ghiaccia il sangue, spero che Vilma non abbia colto. Spererei vivamente che questo tumore al cervello potesse rincoglionirla un po’… ma invece niente.
“Mi chiamo Vilma” dice infatti Vilma, molto lentamente.
“Ah sì, mi sbaglio sempre con Vanda…” risponde l’operatrice sanitaria gioviale.
Evidentemente, quella bella targa di terracotta posta in corridoio a destra della porta d’ingresso della stanza, con dipinto un fiore di Magnolia su cui è stato scritto in pennarello “Sig. Vilma” (targhetta che trasforma un ospedale in un posto così accogliente e di conforto…), non è di aiuto a questa operatrice sanitaria come promemoria per ricordarsi il nome della paziente (che per sua ammissione sbaglia sempre) da cui si sta recando.
Prendo atto che un cartello che desse indicazione di entrare con calma potrebbe non sortire effetti.
“Allora Vilma cosa vuoi di merenda?”, continua senza alcun sintomo di imbarazzo.
Vilma, subito dai primi giorni si è lamentata del continuo proporle del cibo.
“Vogliono rimpinzarmi come un tacchino”.
Ha osservato come le sembri che l’accudimento passi solo tramite la proposta di cibo. Accudimento solo materiale e fin troppo solerte da parte di tutti, personale sanitario e anche nostro, ci ha accusato.
“Ho bisogno di altro” ha detto Vilma.
Con la grave colpa di non avere un’idea precisa di cosa; come forse capiterebbe a chiunque si trovasse a rientrare un venerdì pomeriggio da lavoro sulle proprie gambe ed a trovarsi la sera stessa in neurologia e dopo due settimane in un hospice, con un tumore non trattabile.
Guardo le innumerevoli fette biscottate, succhi di frutta, marmellatine, campionario sparso sul davanzale della finestra, sul tavolo, sui comodini, consegnate tutti i pomeriggi, regolarmente non consumate e di cui ora, con gioia, questa operatrice sanitaria vorrebbe nuovamente omaggiarci di almeno un altro campione.
“Siamo a posto così” dico alla OSS, che allegramente esce.
Passa poco ed entra la psicologa.
Inizio a pensare che Vilma abbia ragione, oggi la stanza Magnolia sembra veramente un porto di mare.
Si presenta con atteggiamento solerte e un po’ urgente, intuisco che ha parlato con la collega con cui ho parlato io. Le ho viste che entravo nel salottino per un’altra riunione. Evidentemente non si capacitano delle necessità espresse da Vilma. Le immagino attonite nel discutere l’ipotesi di apprendere un cartello alla porta della stanza. Evidentemente gli OSS sono una lobby fortissima, alla quale non è possibile recare alcun disturbo, non avrei mai pensato.
La psicologa e Vilma riparlano nuovamente della dieta. Vilma afferra un grissino che le ho messo sul tavolino che ha davanti, vicino alla bottiglietta dell’acqua e inizia a sgranocchiarlo ostentatamente in faccia alla psicologa che la guarda.
“Eh sì”, dice la psicologa “…un grissino, qualcosa di piccolo, lo può mordere. Facendo attenzione che non vada di traverso…”.
Gli occhi di Vilma sono feroci, fissano la psicologa che parla, mentre il grissino, con cattiveria, bocconcino dopo bocconcino, si riduce per scomparire in prossimità della labbra di Vilma. Credo che per questa operazione stia facendo anche un notevole sforzo. Io mi chiedo se la psicologa si stia rendendo conto o meno che Vilma la sta mandando affanculo.
“E per il resto che cosa possiamo fare per lei?” Chiede la psicologa a Vilma…
Scomparso il grissino, Vilma la guarda.
“Lasciatemi in pace”, le dice in maniera secca.
La psicologa sorride garbatamente e ci lascia. Correrà a riferire, immagino, chissà se i loro consulti riusciranno a produrre una qualche comprensione della situazione, mi chiedo.
Anche a me è venuta una gran voglia di mordere.
Ho come l’impressione che Vilma stia facendo al personale di questo reparto un gran dispetto.
Mi viene alla mente il colloquio avuto in corridoio con l’altro medico, la settimana scorsa. Quello che pascola per i corridoi e si sofferma volentieri a parlare con i parenti che incontra. Sembra non abbia nessuna altra urgenza a cui rispondere.
Eravamo infatti seduti sulle poltroncine davanti al salottino del reparto. Ci ha chiesto come andava… Ci ha informato che Vilma avrebbe già potuto dal giorno del suo ingresso essere mobilitata sulla carrozzina basculante. Alle ripetute proposte che le aveva fatto, però, Vilma non ha risposto positivamente.
Abbiamo commentato con lui, che probabilmente, una tale operazione avrebbe richiesto a Vilma una presa di coscienza troppo violenta. Una volta messa in carrozzina si sarebbe resa conto, della propria condizione, di non potersi più, per sempre, reggersi sulle proprie gambe. Un passaggio troppo delicato insomma.
Così delicato che qualche giorno dopo, quando Vilma ha accettato di essere mobilitata, lo stesso medico si è limitato a delegare agli OSS l’operazione, senza sentire di dover essere presente per accompagnare Vilma in questo passaggio, né lui né nessun altro dei medici pascolanti.
Probabilmente preferisce lavorare sull’estemporaneo, con i parenti che incontra per i corridoi, piuttosto che organizzarsi ad essere presente su un intervento delicato che lui stesso ha iniziato e concordato con una paziente. È una fortuna avere una così grande libertà di interpretazione della propria professione.
Vilma è uscita dal suo letto, sollevata da un argano che l’ha poi calata sulla sedia, con una serie di lunghe manovre delicate, per opera di due gioviali operatori sanitari, preoccupati di svolgere l’operazione abbastanza velocemente da poter poi avere il tempo di poter servire la merenda, il vero momento importante del pomeriggio.
Vilma ha lasciato per la prima volta il suo letto dopo quattro settimane, dopo il venerdì in cui è rientrata a casa senza sapere di avere un tumore, dopo avere sperimentato tutta la sua fragilità e senza la presenza di uno psicologo o di un medico che la potesse sostenere e rassicurare.
Ho assistito all’operazione nascosto nel bagno della camera, per pudore nei confronti di Vilma e della situazione mortificante, l’hanno lasciata completamente storta sulla carrozzina, la testa piegata a destra, le gambe scoperte ciondolanti e abbandonate al proprio peso.
A fine di quel colloquio in corridoio, quel medico ci aveva detto “Questo non è un luogo di morte. È un luogo di vita”. È una bella frase.
L’impressione è che in questo reparto, Vilma potrebbe richiedere di tutto, un ultimo volo in parapendio, una cena di venti portate, una festa con dj, ma non del tempo e del silenzio che le consentano di rendersi conto di stare per morire.
Anzi, mi sembra di percepire un po’ di costernazione da parte dei medici rispetto al fatto che non giungano dalla stanza Magnolia richieste di vita, pragmatiche, simpatiche da organizzare con efficienza e solerzia: la pet therapy con il cagnolino, una schitarrata al lato del letto (un servizio fornito come individuale, mica di gruppo, voglio dire… esclusivo). Insomma, qualcosa da reparto con “la mente aperta”.
Mi chiedo se il fatto che questo venga definito luogo di vita e non di morte non significhi semplicemente che anche qui la morte venga semplicemente ignorata.
Questo mi sembra nel sentire, non mi sarebbe possibile fare altrimenti, i commenti a voce alta del personale in corridoio, incuranti del fatto che dall’altra parte della porta qualcuno stia morendo.
La stanza di Vilma è infatti davanti alla stanza della “Tisaneria”, luogo delizioso, progettato forse per chissà quale parvenza di normalità a servizio del personale e dei parenti.
Di fatto, di parenti che vi sostano non ce n’è, anzi, quando vi è necessità di entrarvi per prendere qualcosa nel frigorifero, viene naturale un atteggiamento quasi di scusa, per non arrecare disturbo alle chiacchiere del personale.
I rumori di risate e scambi allegri giungono fino al letto di Vilma, dove si possono ascoltare i progetti per i giorni di riposo, per le ferie, i desideri di viaggi e pure una brillante conversazione sulla cultura cinese e sulle esperienze in merito fatte da medici e infermieri seduti alla tavola rotonda. D’altronde questo è luogo di vita.
All’ingresso di una paziente con due tumori al cervello non trattabili, allettata per via della paralisi e con un prospettiva di non più di due mesi di vita (composti in gran parte giorni già passati), si sarebbe potuto pensare di ospitarla in una stanza più riparata, alla fine del corridoio, magari in fondo al reparto, piuttosto che difronte alla stanza della ricreazione. Sarebbe stato un pensiero.
Sono passate alcune settimane, non ho avuto modo di capire se le siano poi arrivati finocchi e carote da sgranocchiare, d’altronde in quei giorni i bisogni di Vilma cambiavano di giorno in giorno, di ora in ora, e mi rimane la sensazione che quelli alimentari non fossero i più importanti. Inoltre, mi era parso già di intuire che anche per un reparto con la mente aperta fosse difficile coordinare e organizzare dalle cucine centrali dell’ospedale un fuori menù di tale portata.
Vilma nel frattempo si è addormentata. Così pare. Da dieci giorni dorme per gran parte del giorno, non si sta più alimentando. Inizia ad avere difficoltà nel parlare. Non si intuisce però quanto sia vigile. Perché ogni tanto, anche ad occhi chiusi, fa cenni di risposta a frasi che vengono pronunciate nella stanza.
Una infermiera la sta movimentando, per cambiarle il pannolone, mi ha chiesto di aiutarla, altrimenti dovrebbe chiamare una collega impegnata in salottino in una riunione di formazione.
Ho acconsentito, non avrei dovuto. Sostengo Vilma su di un lato, dai fianchi.
“C’è qui Andrea che mi aiuta.” ha urlato a Vilma l’infermiera. Non so perché. Conosco Vilma da vent’anni, mai l’ho vista nuda, neanche solo in costume da bagno o semplicemente non ordinata nella sua figura. Non so se Vilma possa essere contenta di sapermi qui ora. Vilma ha gli occhi chiusi, mi chiedo che necessità vi sia di informarla.
“Ma lei ha esperienza sanitaria?” mi chiede l’infermiera come a farmi un complimento per come sto sorreggendo il corpo di Vilma dai fianchi.
“Nessuna”, rispondo io. Forse basta un po’ di attenzione, un po’ d’amore per questo corpo, per questa persona.
L’infermiera ha finito la sua manovra. Con velocità entra in stanza un signore vestito in borghese, mai visto prima, si avvicina all’infermiera. Il corpo di Vilma tra me e loro due.
“Il paziente della stanza tulipano ha avuto altri episodi le scorse notti? Perché altrimenti dobbiamo pensare ad un episodio sporadico…” domanda.
L’infermiera risponde solerte. Tra loro uno scambio informativo. Io rimango un po’ attonito.
Subito dopo entra in stanza un’altra operatrice sanitaria, senza bussare né preannunciarsi.
Vorrà chiedere della merenda.
Il corpo di Vilma sul letto, in mezzo alla stanza, è ora disteso e in attesa di essere coperto e sistemato. Le nostre quattro figure attorno.
Guardo quello che ho capito essere un medico e mi rivolgo a lui.
“Questa stanza è grande”, gli dico, “C’è ancora spazio. Se c’è in corridoio qualcun altro che ha bisogno di fare un consulto lo possiamo fare entrare…”
Il medico cerca di ignorare il mio intervento, ma poi mi guarda.
“Mi scusi?” mi dice.
“Intendevo dire che mi sembra ci siano già troppe persone in questa stanza… Non crede?” gli dico.
Si rigira rivolto all’infermiera e va avanti con il suo colloquio.
Finito con comodo il consulto, si rivolge nuovamente a me.
“Non capisco la sua aggressività?” mi dice.
“Ma per lei è normale entrare nella stanza di un paziente, mentre lo stanno cambiando, e davanti al suo letto mettersi a parlare a voce alta di un altro paziente?”
“Io ho visitato la signora stamattina e le posso assicurare che nelle condizioni in cui si trova non le rechiamo alcun disturbo.” mi informa.
Praticamente, secondo lui, Vilma non capisce più un cazzo. Quindi io sono qui per Vilma senza scopo, come un cretino.
“Ma lei si è mai trovato nelle condizioni della signora?” gli chiedo.
Non è necessario, mi informa lui. Lui sa.
“Ho grande ammirazione per le persone che sanno già tutto e non nutrono alcun dubbio.”, gli rispondo.
“Vorrà dire che quando sarà allettato con le emorroidi io verrò nella sua stanza a parlare con il mio carrozziere del colore nuovo della mia automobile. Non si preoccupi… Sapendo che l’argomento non inficia sulle sue emorroidi”, continuo commentando.
Lui non si capacita proprio della mia aggressività e quindi continuiamo lo scambio in corridoio.
“Lei ritiene di essersi comportato in maniera professionale nel fare quello che ha appena fatto in questa stanza?” gli chiedo appena girato l’angolo della porta.
Non ha alcun dubbio. Decenni di esperienza a suo favore. Solo non comprende la mia contrarietà.
“Allora l’argomento è chiuso.”, lo informo, “Stia tranquillo. Non abbiamo nulla di cui parlare. Mi spiace per la mia manifestazione di scontento. Le sarà capitato di lasciare qualcuno scontento in tanti anni di esperienza, no? Oggi le è andata così. Se ne faccia una ragione”.
“Piuttosto…”, gli chiedo cambiando registro, “Il fratello e gli amici di Vilma si stanno chiedendo quali siano i reali bisogni di alimentazione di Vilma. È utile spronarla a mangiare quando si sveglia?”
Quindi mi informa che no, non è utile spronarla a mangiare eccetera eccetera. Quindi lo ringrazio e rientro in stanza.
Sono, da un’oretta, seduto affianco al letto di Vilma e cerco di trovare calma, di non pensare a nulla, per me e per lei, quando mi rientra in stanza il medico di prima.
Si appoggia con i gomiti al fondo del letto e mi guarda.
“Come va?”, mi chiede con fare gentile. Penso ad una specie di ravvedimento e allora rispondo.
“Tutto bene, per quanto si possa…”
Seguono sospiri di circostanza e poi addirittura decido di incoraggiarlo…
“Secondo lei…”, chiedo, “Come si può capire se stia soffrendo veramente di mal di testa?”
“Perché prima”, continuo, “Vilma mi ha detto di avere mal di testa… Ma il volto non sembra sofferente. Come si fa a comprendere se sia il caso di darle qualcosa o se la risposta invece è casuale?”…
Domanda fina, mi rendo conto, ma voglio dargli fiducia.
Allora mi informa con competenza che esistono una serie di parametri tra i quali, è vero, l’espressione del viso, poi una serie di valutazioni e infine certo anche quanto lei stessa dichiara.
Io lo ascolto con attenzione, significandogli che lo comprendo e lo ringrazio della spiegazione. E nulla altro vorrei.
Invece lui si alza, si avvicina a Vilma, si propende sulla sua faccia e le urla, come lei fosse sorda anziché portatrice di tumore, scandendo bene le parole…
“Signora Vilma!
Lei ha mal di testa?!”
Io rimango estasiato da tale intervento che trasuda di esperienza pluriennale…
Vilma reagisce grugnendo qualcosa che assomiglia ad un “sì” e quindi il medico si rivolge a me dicendomi:
“Ecco, vede. Lo ha detto. È chiaro”
lo lo ringrazio dell’intervento, prendo nota che arriverà (a mio avviso decisa a caso) una flebo di paracetamolo (tanto non è quella che la ucciderà), e decido di tacermi.
Se non fosse che lui, rinvigorito dalla mia attestazione di fiducia, si riposiziona di nuovo al mio fianco, mi guarda e mi dice:
“Ma io volevo chiederle a proposito della sua manifestazione di aggressività… ?”
Qualora anche io fossi stato veramente aggressivo, mi chiedo, evidentemente questo medico non ha esperienza di parenti o amici di malati terminali che in un momento di poco controllo possono manifestare aggressività. Lui fin’ora ha lavorato solo con parenti in accettazione e grati della situazione. Quindi gli dico:
“Guardi, sono spiacente che lei non riesca a farsene una ragione. Non ha a disposizione qualche strumento di supervisione che possa aiutarla in questo?”
“Certamente” mi rassicura lui.
“Ah…”, faccio io, “…e l’hanno consigliata di tornare da me a chiedere?”
“No. È su mia iniziativa che sono tornato” dice lui.
Bene, penso io, quindi lo ha riportato a me semplicemente il suo ego.
E infatti inizia tutta una arringa per farmi capire che lui questa mattina non ha sbagliato nulla…
Al che lo interrompo: “Mi scusi, forse le è sfuggita l’obiezione che io le ho fatto stamattina, ma se non è chiaro, le ripeto che la questione è proprio questa: davanti a questo letto non mi sembra il caso vengano fatti discorsi inappropriati.”
Mi invita quindi ad uscire e appena varcata la porta della stanza di Vilma mi dice:
“Cerchiamo un salottino per accomodarci…”
“Perché?”, faccio io, “Parlare davanti ad un malato morente le sembra appropriato e invece in corridoio non si trova a suo agio?”
Con suo disappunto mi rifiuto quindi di seguirlo e ci fermiamo a parlare in corridoio davanti alla stanza di Vilma, dove magicamente l’intensità della sua voce si abbassa e assume un tono più raccolto, sia mai che qualcuno intorno a noi lo senta dire cazzate.
Riprende la difesa del proprio operato, gli ripeto che in tal caso non ho nessun argomento da discutere con lui, ma lui no, una vittoria a tavolino non lo soddisfa, lui vuole proprio che io me ne vada oggi via da questo posto, pienamente convinto della sua perfetta impeccabilità.
Oppure, penso, semplicemente desidera, insistendo, che io lo mandi a quel paese per avere l’alibi di avere avuto a che fare con uno squilibrato e quindi risultare pulito e impeccabile.
Non ho tempo per il suo ego, lo saluto e rientro in stanza da Vilma e certo, mi è venuta una gran voglia di mordere.
Sono incazzato è vero. Sono incazzato con Vilma. Non so neanche perché sto qui ad accudirti, sai. Non sono d’accordo, per nulla. Devo dirtelo, mi spiace. Non era questo il modo cara Vilma. E non affatto per il tumore, sai, ma per tutta questa roba che abbiamo intorno, per tutta questa roba mortificante. Non era il caso. Non per noi. Non tu. Ce lo siamo detti tante volte. E poi tu lo sai, anche questo tu lo sai meglio di tante altre persone: chi muore tradisce. E non era questo il modo.

Aprile 2024